Leggendo “Dei e potenza”, scritti e interviste di Guillaume Faye

La pubblicazione della raccolta di testi e interviste di Guillaume Faye finalmente ci fornisce un quadro completo del pensiero di un originale e provocatorio intellettuale europeo. È una buonissima occasione per approfondire la sua particolare visione pagana e nietzschiana. Il testo esce per Altaforte. È curato da Adriano Scianca che ha anche tradotto la quasi totalità dei testi, in massima parte inediti in Italia. Il libro raccoglie in ordine cronologico diverso materiale che va dal 1979 al 2019, anno della morte di Faye.
“Dei e Potenza” è un lungo excursus attraverso la scrittura e la vita del giornalista e scrittore francese.

Faye muove i suoi primi passi con il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (GRECE), al quale il Nostro si era unito su consiglio di Dominique Venner. In seguito, ci fu una rottura con il GRECE nel 1986. Nei primi anni Novanta si dedica alla radio sotto lo pseudonimo di Skyman e a sortite corsare nell’industria dei media. Faye afferma di avere anche recitato come attore di film porno in quel periodo. Egli ritorna sulla scena metapolitica alla fine degli anni Novanta con quel testo fondamentale che fu L’Archéofuturisme (1998). Farà seguito un’intensa attività di saggista e polemista nell’ambito dei movimenti identitari europei che avrà termine con la sua morte all’età di 69 anni.

Gli anni Ottanta nel segno di Nietzsche: eclisse del sacro, seduzione e potenza

Già dagli anni Ottanta troviamo un Faye che critica la “dittatura del benessere” di un Occidente consumista e standardizzato, reo di aver dimenticato il vero spirito europeo. Uno spirito che, a detta dell’intellettuale francese, risalirebbe alla Grecia Antica e al paganesimo di matrice indoeuropea (Georges Dumézil docet). Lì sono le radici dell’Europa, scriverà in seguito Faye, non certo nel cristianesimo e nella sua “morale da schiavi”.
Seguendo Martin Heidegger (ma anche Nitzesche, citato più diffusamente in altri saggi) Faye parla della necessità di un ritorno a una Abend-Land, una sorta di Esperia (terra del sole che tramonta). In termini filosofici si tratterebbe di un luogo dove tramonta la tradizione metafisica e dove “sorge la volontà-potenza autocosciente”.

Tra i vari scritti presenti nel volume troviamo anche un articolo di Faye dedicato a Jean Baudrillard. Qui scopriamo un vivo interesse per una “strategia fatale della seduzione” come quella proposta a suo tempo da Baudrillard, ovvero nelle parole di Faye: “spingere fino alla fine l’assurdità del sistema, della civiltà attuale, fino al loro punto di rottura; giocare al gioco della decadenza per forzarla fino al punto più profondo di se stessa, fino alla propria sparizione”. Una convergenza interessantissima che sembra anticipare anche un certo accelerazionismo. Ci sembra un tema non banale e forse meritevole di un approfondimento.

Entrando nel cuore del pensiero fayeniano più dirompente incontriamo le sue prime riflessioni sul paganesimo. Nell’articolo scritto come recensione al celebre libro di Alain de Benoist “Come si può essere pagani?” Faye incomincia a discostarsi dalla posizione di de Benoist che, se pur improntata ad un paganesimo filosofico nietzschiano, ruota ancora attorno al divino ed a una sensibilità mistica che svilisce, a suo dire, l’azione umana. Faye vuole emanciparsene per abbracciare in toto una concreta volontà di potenza di stampo prometeico.
Proprio su questo punto essenziale segnaliamo uno dei testi più interessanti che si trova nella raccolta: “Heidegger e la questione del superamento del cristianesimo”. In questo articolo uscito su Nouvelle école nel 1982 si affrontano gli spinosi temi del concetto di divenire ed il problema del male. Le conclusioni cui giunge il filosofo tedesco secondo Faye sono che “l’essere-divenire suscita la coscienza e conduce lo spirito umano a pensarlo”. In pratica, è l’essere umano a creare “Dio”, inteso come proiezione dello spirito umano che pensa l’Essere. Se dite questo a qualunque cristiano, probabilmente non la prenderà benissimo.

Sullo stesso tenore, troviamo anche l’articolo “L’eclisse del sacro” dove Faye scrive esplicitamente di un essere umano che trasmuta e si fa demiurgo. Faye immagina non un ritorno al culto dei vecchi dèi, cosa che sarebbe impossibile. In alcune interviste lancia la suggestione di un mondo dove nuovi titani prenderanno il posto lasciato vuoto dalla morte di Dio. Ovviamente, la cosa che non viene vista positivamente né da intellettuali “pagani” alla de Benoist né, tantomeno, da pensatori su posizioni cristiane come Thomas Molnar.

Successivamente, in altri saggi e interviste presenti nella raccolta, emergerà sempre più nitidamente l’idea di un paganesimo seduttivo, archeofuturista. Faye è decisamente più nietzschiano del de Benoist degli anni Ottanta, il quale rimane comunque un punto di partenza essenziale.

Fondamentale per l’edificazione di questa complessa visione filosofica di Faye è stato il pensiero di Friedrich Nietzsche e di Giorgio Locchi, oltre che le riflessioni di Martin Heidegger. Quest’ultimo è un autore su cui Faye tornerà molto spesso anche per approfondirne le riflessioni sulla tecnica.[1] Altro riferimento importantissimo per Faye è stato l’antropologo tedesco Arnold Gehlen.

Crisi dell’Europa e convergenza delle catastrofi

Altro tema forte del pensiero di Faye è quello della crisi dell’Europa. In tempi non sospetti, sin dagli anni Ottanta, Faye avverte dei pericoli derivanti da un’immigrazione incontrollata. Egli mette in guardia sul problema del razzismo che una società multietnica finisce inevitabilmente per alimentare. L’intellettuale francese si rende presto conto osservando la situazione francese che il “terzomondismo” presente purtroppo anche nelle evoluzioni del pensiero della “Nouvelle Droite” è dannoso per i popoli europei. I pericoli per l’Europa arrivano dal sud del mondo, non solo dall’asse Est / Ovest.
Il Faye degli anni Novanta immagina una convergenza delle catastrofi: fine delle risorse, denatalità, crisi energetiche, pandemie, “etnomasochismo” unito ad un Islam sempre più aggressivo; insomma la tempesta perfetta che rischia di distruggere i popoli europei.

Prendendo spunto dalla teoria delle catastrofi” elaborata dal matematico René Thom, Faye  – senza pretese messianiche – si rivela un abile futurologo. Purtroppo per noi è stato una notevole Cassandra nel tratteggiare i nostri “tempi interessanti”. Vede nel paganesimo (nella sua concezione del paganesimo) un argine contro l’Islam. Il debole cristianesimo secolarizzato per Faye non solo non riesce a opporsi all’islamizzazione ma rischia anche di favorirla. Per lui solo un paganesimo nietzschiano e non tecnofobico può fermare la deriva dei popoli europei aprendo ad un nuovo ciclo. Ecco che verso la fine dei Novanta prende vita la sua visione archeofuturista.

Archeofuturismo come sintesi di valori ancestrali, dinamismo e volontà di potenza dello spirito europeo

Il pensiero archeofuturista di Faye prevede una sintesi tra i valori ancestrali di matrice indoeuropea presenti nella cultura dei popoli dell’Europa e una visione futurista intesa come “dinamismo”, “volontà di potenza”, “proiezione nel futuro”. È una sintesi tra apollineo e dionisiaco che riconosce il valore mitico e fondante della tecnoscienza europea. Quello di Faye è un pensiero che sfocia in un titanismo pagano. Ad esempio, egli pensa assieme i valori estetici di un sottomarino con missili balistici a propulsione nucleare e una trireme ateniese. Per Faye non si tratta di “conservare” il presente o di ritornare a un passato più o meno recente, ma di riappropriarsi delle radici più arcaiche ed adatte ad una vita vittoriosa.

Per fare ciò, sempre secondo l’intellettuale francese, bisogna sintetizzare scienza tecnologica e arcaismo, riconciliare Evola e Marinetti, il dottor Faust e l’operaio jungeriano . Al bando la tecnofobia! Faye ci parla di valchirie e di ninfe ma anche dei razzi di Von Braun e della scuola di architettura tedesca di Chicago. Si esalta scrivendo dell’arte degli anni Trenta come della bellezza maestosa di Versailles. Il destino degli europei è di andare oltre, di superare i propri limiti e tracciare nuovi confini. Bisogna predare territori sconosciuti come fecero a loro tempo i popoli vichinghi. A questo proposito, nel libro vi sono pagine dedicate all’ultimo grande mito “esperiale”: quello della conquista dello spazio e di eventuali contatti con gli alieni.

Contro il tradizionalismo piccolo borghese e smobilitante

Scritto nel 1996 il piccolo articolo di Faye, intitolato “Contro il tradizionalismo” si scaglia con veemenza contro l’uso smobilitante fatto delle parole di Juliu Evola e Martin Heidegger. Sia chiaro il discorso di Faye è contro chi perverte i discorsi di due grandi ed essenziali pensatori del Novecento pervenendo ad un tradizionalismo sterile che puzza di piccolo borghese frustrato, marginalizzato e sconfitto dalla vita. Citiamo direttamente Faye:

I nostri anti-moderni non si peritano infatti di approfittare delle comodità della «vita moderna» disprezzata a parole. E da qui danno la vera dimensione del loro discorso: l’espressione di una cattiva coscienza, di una «compensazione» effettuata da spiriti profondamente borghesi relativamente a disagio nel mondo attuale, ma nondimeno incapaci di farne a meno. (…) questo tipo di tradizionalismo sbocca nella maggior parte dei casi in un individualismo esacerbato, quello stesso individualismo che la loro visione pretesamente «comunitarista» vorrebbe denunciare nella modernità…
Con la scusa che il mondo è «cattivo», che i contemporanei sono beninteso decadenti e imbecilli per definizione, che questa società materialista «corrotta dalla scienza e dalla tecnica» non coglie gli alti valori dell’«interiorità», il tradizionalista, che ha sempre un’ideale apicale di se stesso, viene portato a non credere più nella necessità di una lotta nel mondo, a rifiutare ogni disciplina, ogni vincolo di solidarietà con il suo popolo, ogni interesse per la politica.

Per Faye il tradizionalista diventa una sorta di “cimitero vivente del borghese moderno” e molto spesso finisce anche per idealizzare in maniera folle ed “etnomasochista” un “terzo mondo” che è l’antitesi stessa del genio della civiltà europea, della sua vera tradizione tecnoscientifica, del suo lascito reale.

Lo spirito europeo, in ciò che ha di più grande, praticò sempre l’ottimismo della volontà, fu sempre rivolto verso l’esterno e il mondo e non verso una pura interiorità, fu costruttivista e non spiritualista, filosofo e non teologo, disinstallato e non rinchiuso nel suo passato, fondatore delle proprie tradizioni e delle proprie forme e non genuflesso di fronte a idee immutabili, conquistatore e non contemplativo, «tecnico» e urbano e non campagnolo, attaccato alle città, al porti, al palazzi e al templi più che ai campi.

Ripartenze per una nuova idea di Europa “allargata”: “Uropia” come luogo dove tornare a casa

Il libro “Dei e potenza” è una scatola di attrezzi formidabile per chi si approccia a certi temi identitari con una mente aperta. Adriano Scianca ha fatto veramente un ottimo lavoro – titanico è il caso di dirlo – di ricerca e traduzione. La copertina è molto bella con un razzo che punta alle stelle, immagine “fallica” e fiera di esserlo, contro tutte le idiozie castranti. Per concludere, un paio di considerazioni personali su una possibile Europa archeofuturista ispirate alla lettura del libro.


Tutto il pensiero di Faye ruota attorno alla fedeltà all’Europa, al suo pensiero ancestrale e alla caratteristica essenziale dei popoli europei di superare se stessi, di andare oltre. Ma di quale Europa si sta parlando? Faye non si riferisce certo all’attuale Europa grigia, pavida, perbenista e burocratica di Bruxelles, una UE manipolata come un burattino da Est come da Ovest. È un Europa incapace di usare come si deve la tecnica, liberarne il suo vero potenziale, senza inciampare nella morale e nei dogmi cristiani.

Faye nel libro Archeofuturismo immagina dopo una serie di disastri una grande unione tra Russia e paesi europei per ripartire con un continente federato, una sorta di Eurosiberia. È bene far notare, però che ai tempi in cui Faye scrive Archeofuturismo (fine anni Novanta) la Russia stava attraversando una grandissima crisi economica, sociale e al potere c’era Boris Eltsin. Detto questo un’unione tra Europa e Russia potrebbe essere allettante ma solo a certe condizioni. In fondo, era anche il grande sogno di Carlo XII di Svezia quello di unire Europa e Russia ma il re imparò a sue spese (e non solo lui) che la via militare e violenta per realizzare quest’unione era ardua e densa di insidie. Chi vuol capire capisca.


Oggi se immaginiamo una nuova “Uropia”, archeofuturista e fayeniana, forse dovremmo pensarla non solo in termini geopolitici, di confini e rapporti di forza, ma su due criteri profondi, fondanti e dirimenti: “essere dello stesso sangue” ed “essere della stessa idea”.
Una Uropia deve essere la casa di tutti gli eredi, i discendenti dei popoli indoeuropei. Anche di quelli che sono nati in USA, in Sud America, in Canada e in Australia? Perché no? Ma solo se loro vogliono realmente “tornare a casa”. Oggi alcuni gruppi neopagani statunitensi dell’Asatru Folk Assembly rivendicano con orgoglio la loro discendenza europea, ne vanno fieri. Sarebbe il caso di tenerne conto. L’Uropia dovrà comunque essere pagana (in senso titanico e prometeico) seduttiva, autosufficiente e assolutamente non tecnofobica. Solo così potrà affrontare al meglio e a testa altra le sfide continentali future. Solo così tornerà ad essere realmente sovrana continuando ad onorare in piedi i propri avi.


[1] Guillaume Faye, “Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica.” SEB, Milano 2007